domenica 23 aprile 2017

II DOMENICA DI PASQUA ANNO A

La Pasqua e il Natale sono due facce della stessa medaglia. Il natale di Gesù e tutta l’esistenza storica di Gesù ci fa vedere che Dio è con noi. La sua passione, morte e risurrezione, cioè la sua Pasqua, ci dice che Dio è in noi, col suo Spirito che ci permette di vivere, amare, soffrire e morire come Gesù, e così essere risorti già adesso. E la Pasqua è iniziata il giorno del nostro Battesimo, come dice san
Paolo nel brano ai Corinti di oggi: riempiti della sua divinità, sepolti con lui al peccato e risorti a vita nuova. Vuol dire che la Pasqua non è qualcosa che riguarda solo il nostro futuro, ma il nostro presente: è la presenza del Vivente nella nostra vita. Il punto è rendercene conto. Anche gli apostoli, come spiega il vangelo di oggi, lo stesso giorno di Pasqua, dopo aver visto la tomba vuota e ascoltato l’annuncio della risurrezione rivolto a loro dalla Maddalena, erano rinchiusi nel cenacolo con tutte le loro paure. Gesù è uscito dal sepolcro e noi restiamo nei nostri sepolcri. Ma come Gesù aveva infranto la roccia del sepolcro, allo stesso modo Gesù entra lo stesso nei nostri sepolcri, come quella sera entrò a porte chiuse nel cenacolo. Fino a quando non permettiamo al Signore di entrare nei nostri sepolcri, resteremo con le nostre paure e non sarà mai Pasqua. E quali sono i frutti della Pasqua, del sentire viva la sua presenza nella mia vita? Il primo frutto è la pace del cuore. Pace a voi, dice Gesù. Non è un augurio, ma un fatto. È la pace che nasce dal sentirsi amati così come siamo, perché pace a voi Gesù lo dice a coloro che lo avevano abbandonato. E il frutto di questa pace non può che essere la gioia: essi gioirono. Non è la gioia di chi ride sempre, ma la gioia che nasce appunto dalla pace di sapere che neanche il nostro peccato e la morte ci possono separare dal Signore. Gesù porta in sè i segni della sua passione, del suo amore. Ed è risorto. Vuol dire che se anche noi viviamo e amiamo come lui, anche noi siamo destinati a questo. A risorgere non è infatti Gesù, ma Gesù crocifisso: il crocifisso risorto. Avere questa consapevolezza genera appunto la pace e la gioia. E allora cosa dobbiamo fare? Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. A far cosa? Ad amare gli altri come fratelli nello stesso modo in cui il Padre ama noi. E l’espressione massima di questo amore si manifesta nel perdono. Se perdono gli altri vuol dire che ho questo amore, se non perdono non ho questo amore, vuol dire che non sto seguendo lo Spirito del Figlio dentro di me che mi comunica l’amore del Padre e che mi porta ad amare tutti come fratelli. Il perdono è un miracolo più grosso che risuscitare i morti, perché i morti muoiono ancora, mentre invece se io perdono, io divento come Dio che ama senza misura. E perdonando il mio fratello faccio risorgere anche lui. Perché Dio ci perdona sempre, ma sulla terra abbiamo noi il potere di perdonare, e ciò che noi non perdoniamo, non è perdonato. E infatti ci viene più facile la vendetta del perdono. Per questo Gesù soffia sui discepoli il suo Spirito che spetta poi a noi seguire o meno. Ma come accogliere la forza di questo Spirito, come ricordarci di averlo ricevuto così da usarlo? Contemplando le sue ferite che sono il suo amore per noi. E qui ci viene in soccorso l’apostolo Tommaso, detto Didimo, cioè gemello, perché è uguale a noi. Anche se i suoi fratelli gli dicono di aver visto il Signore, lui non crede. Vuole toccare le sue ferite per credere nella risurrezione, per convincersi che vale la pena credere in Gesù, perché fino a quel momento Tommaso aveva un’unica certezza, e cioè che crepiamo tutti, e quindi anche per lui, aver seguito Gesù per tre anni non gli era servito a nulla. Tommaso diventa credente quando mette il suo dito nelle ferite di Gesù, quando scopre che c’è un amore più forte della morte, che anche l’unica certezza che noi abbiamo, quella che dobbiamo morire, Gesù la distrugge. E anche noi possiamo fare la stessa esperienza di Tommaso, altrimenti l’evangelista Giovanni non avrebbe detto, al termine del suo vangelo: queste cose sono state scritte perché voi crediate. Noi sentiamo la voce di Gesù ascoltando la sua Parola, e se la mettiamo in pratica, ci accorgiamo che davvero essa ci dona la gioia. Se la mettiamo in pratica, cioè se ci fidiamo: questa è la fede. Solo fidandoci e praticando quello che Gesù ha detto possiamo sperimentare la veridicità della sua Parola e risorgere oggi, perché la risurrezione ci riguarda oggi. E vorrei proprio sottolineare questa parola: oggi. Cosa sia questo “oggi” la liturgia ci aiuta a capirlo questa cosa parlando della domenica come del giorno ottavo, perché il numero otto è segno della vita che non muore. Nella numerazione ebraica, la domenica è il primo giorno dopo il settimo giorno che è il sabato, e sette più uno fa appunto otto. Per questo oggi si conclude l’ottava di Pasqua iniziata domenica scorsa. Ma noi viviamo sempre in questo ottavo giorno, fino alla fine dei tempi. E questo ottavo giorno è iniziato, dicevo all’inizio, col Battesimo (per questo gli antichi battisteri erano fatti con otto lati). Anche il vangelo che abbiamo letto, se ci avete fatto caso, si svolge in due momenti: il primo momento, la sera del giorno di Pasqua, quando non c’era Tommaso, e il secondo momento otto giorni dopo, ma in realtà è un unico giorno. E questa ottava di Pasqua si chiama settimana in albis, dove il riferimento è alle vesti bianche del Battesimo che i catecumeni ricevevano la notte di Pasqua e che venivano tenute fino a questa domenica che infatti si chiama in albis depositis, che vuol dire le vesti bianche che venivano deposte, tolte. Noi di fatto non andiamo in giro vestiti di bianco, anche perché la veste del Battesimo ci andrebbe stretta, ma essa è simbolo della vita da risorti che siamo chiamati a vivere e che possiamo vivere se almeno impariamo a renderci conto di tutte queste cose.