venerdì 18 luglio 2025

11/05/25 IV DOMENICA DI PASQUA

“Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Il segno distintivo di un cristiano è una gioia piena, traboccante, da poter essere comunicata agli altri. E Gesù, in questo brano del Vangelo, ci dice perché. Perché, se restiamo nel suo amore, accogliendo lo Spirito che egli ha 

ricevuto dal Padre e che egli dona a noi, cioè la sua stessa capacità di amare, diventiamo suoi “amici”. “Amici” di Gesù vuol dire “alla pari, come lui”, riempiti della stessa vita immortale di Dio, una vita di una qualità tale da superare anche la morte. E allora, assicura Gesù, tutto quello che chiederemo al Padre nel nome di Gesù, cioè identificandoci in lui, sentendoci amati dal Padre come lui, il Padre ce lo concederà. Vuol dire, allora, che, posso chiedere una Ferrari e ottenerla, o di vincere al Lotto o di guarire da una malattia ed essere esaudito? No, perché, se il dono che Dio fa è sè stesso, il suo spirito, la sua capacità di amare, tutto quello che chiederemo al Padre, identificandoci con Gesù, sarà quello che chiedeva Gesù, e cioè vivere come figli che amano i fratelli. La gioia cristiana, dunque, nasce dalla scoperta che Dio non è un legislatore a cui obbedire, ma è un Padre a cui assomigliare nell’amore; che l’amore di Dio non si manifesta preservandoci dai pericoli, dai problemi o dalle tragedie, ma nel renderci partecipi dello stesso destino di risurrezione di Gesù, se però diventiamo suoi amici (cioè, se amiamo come lui ama noi); e che la gioia non dipende dalle circostanze della vita, se le cose vanno bene o vanno male, se gli altri mi vogliono bene o non me ne vogliono, ma è una gioia interiore che nasce dalla profonda esperienza che uno fa dell’amore del Padre. E’ da questa esperienza di gioia che scaturiscono le parole che Paolo scrive ai cristiani della comunità di Filippi mentre si trovava in prigione, probabilmente a Efeso, col rischio di venire ucciso. Prega per loro chiedendo che cresca il loro amore verso Dio e tra di loro. Nient’altro. Questo è quello che conta. E una declinazione concreta della gioia del vangelo è descritta da Luca nel brano degli Atti degli Apostoli. La scena di svolge nella casa di Filippo, che era uno dei sette diaconi che erano stati nominati dagli Apostoli perché si occupassero di “servire” la comunità cristiana di Gerusalemme distribuendo il cibo. A quei tempi, Paolo non si era ancora convertito, anzi, andava in giro a perseguitare i cristiani e, uno di questi, era proprio Filippo, che viene chiamato evangelista perchè, fuggito in Samaria, era diventato un evangelizzatore. Tempo dopo, ecco che Paolo, dopo la sua conversione, è in casa proprio di Filippo: Filippo ospita chi lo voleva uccidere, non ha più timore di Paolo, perché sono diventati fratelli in Cristo. Ecco come lo Spirito santo del risorto è capace di cambiare il cuore degli uomini. Poi, c’è un uomo di nome Agabo che compie un gesto profetico che preannuncia l’imminente arresto di Paolo, e Paolo dimostra di non avere paura di affrontare lo stesso destino di Cristo. Piuttosto, ciò che lo turba è accorgersi della preoccupazione dei suoi amici per quello che gli sarebbe accaduto, perché vede che essi ancora non hanno capito che il destino di un discepolo del Signore è lo stesso di Gesù, di morte e risurrezione. E’ bellissima questa scena perché mostra proprio l’essenza della gioia cristiana, la beatitudine promessa da Gesù, che non dipende da fattori esterni, ma da un modo diverso di vedere e affrontare le cose, anche la morte. Dio chiama tutti a sperimentare questa gioia, è la vocazione di tutti: nel Battesimo, il Padre chiama ognuno di noi a diventare suo figlio a immagine di suo Figlio Gesù, cioè a vivere nell’amore, come lui, per avere il suo stesso destino di risurrezione. Ma ognuno, poi, concretamente, realizza questa sua vocazione in modo del tutto personale e particolare. Oggi la Chiesa celebra la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni cosiddette di speciale consacrazione. Di per sé, col Battesimo, tutti noi siamo già consacrati, siamo sacri al Signore, ma ci sono alcune vocazioni che si chiamano “speciali” non perché sono più importanti delle altre, ma perché manifestano, più delle altre, il modo col quale Gesù buon pastore si prende cura del proprio gregge. Sono le vocazioni a diventare diacono, prete e, per qualcuno poi, vescovo o addirittura Papa. Ci sono poi le vocazioni missionarie che rivelano l’amore del buon pastore anche per chi ancora non è suo discepolo; le altre vocazioni alla vita religiosa (chi diventa suora o frate nelle diverse congregazioni religiose, ciascuna delle quali ha un carisma particolare); le vocazioni alla vita monacale, di chi, cioè, trascorre la vita intera in clausura, vocazioni che appaiono inutili, sprecate, improduttive per chi ha una mentalità efficentista, ma che, invece, sono la forza segreta della Chiesa, perché prolungano la preghiera di Cristo implorando Dio anche a nome di chi crede di non averne bisogno. Se oggi il numero dei giovani e delle giovani che si sentono chiamati a queste speciali vocazioni è sempre più basso, è perché è sempre più basso il numero di battezzati che scopre e vive la gioia del vangelo (se è per questo, è sempre più basso anche il numero dei cristiani che decide di vivere la gioia del vangelo nella vocazione al matrimonio). Il problema, oggi, non è che sono pochi (e magari neanche buoni) i preti, i frati e le suore, ma che sono pochi (e magari neanche buoni) i cristiani felici di esserlo. È tutto proporzionato. La giornata di oggi è un motivo di provocazione per tutti noi che siamo qui, per ogni battezzato, per ogni comunità cristiana, perché ci si chieda se vive o no la gioia del vangelo.