Sono tre le parole fondamentali del vangelo di oggi: “luce”, “testimonianza” e “giudizio”. Partiamo dalla prima parola, “luce”. La scena si svolge nel tempio di Gerusalemme, durante la festa delle Capanne, una festa ebraica durante la quale si accendevano di notte le fiaccole che illuminavano a
giorno la città santa a ricordo del viaggio nel deserto durante l’esodo quando il popolo viveva nomade sotto le tende. E la luce è la metafora più bella di Dio: “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre”, dice sempre san Giovanni. Gesù, rifacendosi alle luci che venivano accese in quella festa, proclama di essere Lui il Signore (Io sono), e di essere dunque la luce del mondo, luce perché la sua persona rivela il vero volto di Dio, il senso della storia e della nostra vita. Purtroppo, denuncia Gesù, noi ci fidiamo dei nostri falsi convincimenti, invece che della sua testimonianza, e “testimonianza” è la seconda parola che ricorre in questo testo. Per i farisei, la testimonianza di Gesù non era vera e Gesù dice: “no, io vi testimonio il vero volto di Dio, che Dio è Padre, e quello che vi dico è vero perché io di fatto vivo come suo figlio, assomigliandogli nell’amore, amando tutti voi come miei fratelli. Se vivessi facendo il contrario, ammazzandovi tutti, la mia testimonianza non sarebbe vera. Tanto è vero che io non sono venuto a giudicare nessuno, perché sono venuto a salvarvi”. Poi, però, fa un’affermazione che sembra contraddire quanto ha appena detto: “il mio giudizio è vero”. E questa è la terza parola, “giudizio”. In realtà, non è una contraddizione. Davvero Gesù non giudica nessuno o, meglio, vivendo come Figlio l’amore del Padre, giudica ogni uomo come suo fratello, testimoniando così che il Padre giudica tutti come suoi figli amati. Perciò, giudizio di Dio non è, come spesso si è insegnato, quello di chi divide gli uomini in buoni e cattivi, premiando o castigando, ma è lo sguardo di Dio sul mondo e su di noi. Vedete come questo vangelo, e così sarà anche nelle altre domeniche del tempo pasquale, non parla della risurrezione di Gesù, ma della nostra risurrezione. La risurrezione comincia già in questa vita man mano che permettiamo allo Spirito Santo di trasformarci a immagine di Gesù. Se riconosco Gesù come luce del mondo e mi lascio illuminare dalla sua Parola senza porre ostacoli, cambia la mia visione del mondo e il mio modo di vivere, e sono io a diventare luminoso, cioè a risorgere. Pensate quando Gesù, nel vangelo di Matteo, dice ai suoi discepoli: non “cercate di essere la luce del mondo”, ma “voi siete la luce del mondo”, perché, chi davvero è suo discepolo, è automaticamente luce del mondo, riflesso di Dio, non deve sforzarsi. È da qui che nasce la testimonianza: anch’essa, non è un obbligo, un compito o un dovere, ma è una conseguenza inevitabile: se sono luminoso, se sono risorto, questo possono vederlo tutti. In che modo? Vedendo che giudico la realtà e le persone che incontro con gli stessi sentimenti e con lo stesso sguardo di Cristo. Modello luminoso di questa testimonianza è l’apostolo Paolo, protagonista delle altre due letture di oggi. Alla comunità dei cristiani di Roma aveva scritto una lettera esprimendo il desiderio di raggiungerli per poter comunicare anche a loro qualche dono spirituale e per essere a sua volta confortato da loro. Bellissima questa cosa, importantissima anche per noi: imparare a sostenerci l’un l’altro nel cammino della fede, e non viverlo in modo individualistico. Poi, però, Paolo arriva a Roma come prigioniero. Cos’era successo? Lo si evince dal testo degli Atti degli Apostoli. A Gerusalemme era stato accusato dai giudei di aver predicato "contro la Legge e contro il tempio”, un’accusa falsa, ma il reato era grave, essendo prevista la pena di morte per il trasgressore. Ne derivò un tumulto nel quale Paolo rischiò il linciaggio. Dopo varie peripezie, siccome Paolo era nato a Tarso, in Turchia, che era una provincia romana, da una famiglia benestante ebrea, e dunque era cittadino romano, si appellò, com’era suo diritto, al giudizio dell’imperatore, ma non perché voleva salvare la pelle, ma perché suo ardente desiderio era portare dappertutto la luce di Cristo, e così trasformò quella situazione drammatica in un’occasione straordinaria: portare il vangelo nel cuore dell’impero, a Roma, dove già voleva andare. A Roma godette di una certa libertà e indulgenza, tanto è vero che gli venne concesso di abitare in una casa, con una guardia e, anche qui, trasformò la situazione della prigionia nell’occasione di dare testimonianza, prima di tutto ai suoi confratelli ebrei che lo andarono a trovare, purtroppo senza ottenere grandi risultati. E questo ci insegna anche un’ultima grande verità: che, per quanto luminosa sia la nostra vita, non è consequenziale che, allora, chi non crede, vedendo noi, arrivi a credere. E’ già tanto se riesco a convertirmi io. Per cui devo preoccuparmi di risorgere io, di essere io luminoso, e non della conversione degli altri. Di questi se ne occuperà il Signore, perché comunque sono suoi figli amati, anche se non vogliono capirlo o non ci vogliono credere.